GIUGNO 2017 – World Excellence
Secondo l’ultima rilevazione dell’Aifi, il 2016 è stato un anno record per gli investimenti di private equity in Italia: hanno registrato un balzo del 77% rispetto al 2015 arrivando a toccare quota 8,2 miliardi di euro, il valore più alto di sempre, con i fondi stranieri che hanno pesato per il 69%. Segno di un recupero di attrattività del nostro Paese verso gli investitori internazionali e, al tempo stesso, del fatto che i prezzi evidentemente da noi sono più bassi che altrove.
«L’Italia ha migliorato la propria immagine sui mercati, ma ora occorre radicare questi investitori nel nostro Paese», commenta Anna Gervasoni, direttore generale dell’Aifi. Che
ricorda come sia importante diffondere l’interesse per le aziende tricolore anche al di fuori dei circuiti tradizionali, coinvolgendo quelle del Mezzogiorno, che più delle altre negli ultimi tempi si trovano a fare i conti con le restrizioni del credito bancario e hanno perciò bisogno di altre fonti di finanziamento.
Tornando allo studio, il numero delle operazioni è calato del 6% (sono state 322 in tutto), per cui è cresciuta la dimensione dei deal, con le prime 17 che hanno pesato su tre-quarti di tutti i capitali investiti.
Capitali pazienti. Al di là dei numeri, il mercato del private equity è alle prese con cambiamenti profondi. A cominciare dalla maggiore disponibilità degli investitori ad allungare il proprio orizzonte d’investimento. Spesso si arriva anche a sette-otto anni, due o tre più del passato, ricorda Francesco Giordano, partner di Pwc. Sottolineando come tra gli investitori istituzionali vi sia uno spiccato approccio industriale, e non solo finanziario, evidente per esempio nella scelta di investire sul management per colmare i deficit di competenze presenti nell’azienda acquisita. Quali i profili maggiormente interessati? «In primis occorre un cfo capace di dialogare con gli istituti bancari che sopportano l’investimento del fondo e in grado di implementare avanzati sistemi di gestione e controllo», spiega. E poi «un responsabile delle operation, capace di ottimizzare sistemi produttivi e organizzazione, intervenendo su produzioni spesso poco managerializzate e apportandovi esperienze precedenti, oltre che nuove figure nell’It e spesso anche un responsabile commerciale estero». Questa visione di più lungo periodo si ripercuote anche sulla tipologia di operazioni, con la leva sensibilmente ridotta rispetto al passato, nonostante i tassi ai minimi. Tanto le banche, quanto gli investitori non vogliono rischiare di fare il passo più lungo della gamba. «Tra gli investitori istituzionali cresce l’orientamento ad adottare soluzioni multi-strategy, capaci di adeguarsi all’evoluzione del mercato», dice Ciro Mongillo, ceo di Eos lnvestment Management. «Guardando in prospettiva ritengo che le strategie di creazione di valore saranno sempre più orientate allo sfruttamento della leva operativa piuttosto che al ricorso a leve finanziarie aggressive». Anche se l’esperto invita a non trascurare i punti di debolezza del nostro mercato, come le ridotte dimensioni di molti fondi di private equity operanti in Italia, dovute a «un contesto imprenditoriale caratterizzato da una moltitudine di Pmi tra i 150 e i 300 milioni di euro, una range che ostacola l’attività di fundraising specialmente a livello internazionale».
Le nuove sfide. Quella più difficile per chi opera nel settore, dice Andrea Colombo, founding partner di U-Start, è «individuare i trend di investimento, interpretarli e, possibilmente, anticiparli». Quanto alla sua società, racconta che in questo momento guarda con grande attenzione «all’intelligenza artificiale, ai digital native vertical brand e alle società che si occupano di trasferimento hardware to software, ormai presente in diversi settori».
Guardando al mercato in generale, per Colombo l’ostacolo più importante da superare è l’attuale circolo vizioso. «La bassa propensione all’acquisizione di startup da parte delle aziende non crea il mercato delle exit. Gli investitori istituzionali, quindi, non investono in fondi di venture capital perché operano in un mercato complesso e inefficiente», sostiene. «Gli investitori privati, a loro volta, non essendoci quei casi di successo che creano ecosistemi favorevoli all’investimento, non hanno accesso a best practice e quindi hanno spesso poca cultura di investimento in venture capital».
Queste distorsioni generano paradossalmente anche i punti di forza del mercato italiano. «Le valutazioni, figlie della legge della domanda e dell’offerta, sono basse e gli imprenditori sono spesso molto prudenti nella gestione delle risorse raccolte. Questo comportamento positivo porta nelle società efficienza e unit economic più sane rispetto a concorrenti stranieri, anche se con tassi di crescita spesso più lenti», aggiunge Colombo.
Focus sul debito. Intanto comincia ad acquisire un certo rilievo anche in Italia il settore del private debt, dei fondi cioè che acquistano debito e non capitale delle imprese (per cui l’investitore non entra nella vita dell’azienda in termini di gestione o di poltrone da far saltare), di fatto fornendo un’alternativa al traballante credito bancario. Lo scorso anno la raccolta ha toccato i 632 milioni, in crescita del 65% rispetto al 2015.
La stragrande maggioranza degli interventi (il 91% del totale) è stata relativa ai minibond, strumenti che consentono anche alle aziende non quotate di emettere titoli di debito alle condizioni previste per le società presenti sui mercati regolamentari. Per Gervasoni «a medio termine questo mercato può arrivare a riversare sulle imprese 1 miliardo di euro all’anno» utile alla crescita.